A mille ce n’è…
Favole rossoblu remix
C’era una volta, nel lontano reame di Chateaufaible, un gruppo di eroici cavalieri.
I cavalieri della tavola Bologna, si chiamavano.
Ogni settimana, con ardore, i cavalieri amavano cimentarsi in pugnaci battaglie coi pari grado degli altri regni. E quando lo facevano, le vesti che indossavano erano rosse come il sangue e blu come il cielo.
Oppure candide come la purezza di una vergine.
Oppure ancora gialle come gli occhi di un drago in acido.
Sfiga.
Macrone, il sarto di corte, era daltonico e ogni tanto scazzava. Ma di brutto, proprio.
Il condottiero di quel manipolo di arditi era Alberto I de’ Malesan, un omaccione simpatico e rubicondo, benvoluto da tutti, che amava pasteggiare a idromele. O al limite andar d’idromele, anche senza pasteggiare. Veniva da qualche annata storta, il Malesan, ma capita. Con i condottieri come col vino.
I più famosi, tra quei fieri giovani in armi, erano il Santo Marco del Vaio, il fiorentin Viviano, l’arcigno Daniele della Porta Novella, il talentuoso Gastone Mascherato, Modingaio il Moro, il Per del Ruso dalla forza bruta. Ma tutti, proprio tutti, possedevano grande valore, cuore di leone, spirito di sacrificio.
E soprattutto, tutti erano amati, considerati intoccabili eroi dal popolo di Bologna. Sì, insomma, quasi tutti. Nell’anno del Signore 2011, infatti, si era creato uno strano ed unico legame tra i cavalieri e la gente dell’Arena Dall’Ara.
E c’era un motivo. C’erano molti motivi.
Sul finire dell’anno precedente, il 2010, molte cose avevano tramato contro i cavalieri della tavola Bologna e il loro seguito di fedeli.
Per primi ci si erano messi i Menarin Fuggiaschi, una nobile famiglia guelfa, della più nera e clericale aristocrazia cittadina. Appartenevano alla corporazione dei Costruttori di Guano. Costoro avevano depauperato le casse del reame di Chateaufaible, avevano portato verso una fine immonda la nobile casata rossoblu, con l’onta dell’ineffabile stregone Lucian della Moggia a fare ombra sul blasone e sulla storia. Dopo di loro era giunto a Chateaufaible il Reuccio Sconosciuto, Sergio del Porco, detto il sardo errante. Non nel senso di girovago. Nel senso che errava spesso. Scazzava proprio.
Sergio del Porco sulle prime aveva convinto i cavalieri e il loro popolo, aveva fatto promesse di gloria, aveva reclutato i più promettenti tra i cadetti di tutte le contrade d’Europa e del Nuovo Mondo. E d’altronde, dopo i Menarin Fuggiaschi, nel cuore ingenuo e umiliato di migliaia di bolognesi albergava solo quello: speranza, cambiamento, voglia di novità. Sarebbe andato bene anche Bonofacio VIII o il Lupo Cattivo.
Solo alcuni avevano osato dubitare del sardo errante. Messer Rigo Gulash in Radio, o il nobile Bortolo del Tortello, due cantastorie alla ricerca della verità. Della verità e del cibo, a giudicar dal loro portamento. Erano visti come menagrami dall’intera popolazione, desiderosa di un futuro migliore.
Poi le battaglie erano iniziate, i cavalieri avevano lasciato intravvedere la loro forza, il loro valore. Ma solo a volte. Era capitato ancora che i nemici li calpestassero, li sconfiggessero senza pietà. E la paura di un’altra stagione di sofferenze aveva aleggiato nell’animo di tutti.
All’arrivo di novembre, Sergio del Porco era fuggito col forziere bucato di Chateaufaible, e tutti avevano detto Ooooh, esterrefatti, io avevo detto Mo Socmel, e Messer Rigo e Bortolo del Tortello avevano detto Visto?
Anche il decano dei Cantastorie, il nero baffuto Gianfranco della Civola, aveva tuonato contro il forestiero ignominioso, con tempismo perfetto, sotto il comprensivo sguardo della Sabrina del Biondo, la Sesenziente Femmina, talvolta, nel più noto convivio letterario cittadino.
Erano iniziati i giorni più cupi, allora. Panico, sgomento, la tavola Bologna che poteva finire, dopo decenni di gloria. Migliaia le voci che si susseguivano, le lotte intestine alla corte di Chateaufaible dure e senza esclusione di colpi. Il popolo rossoblu aveva seguito le vicende con le lacrime che rigavano il volto, incollato alla favella di Rigo Gulash e Bortolo del Tortello, della Margherita della Mandina, del Frassinel Fredrigo, del Mossin Torello.
E a nulla era servito chiedere a Ser Carlo del Calice, lo scriba di corte. Pure lui alzava ogni volta gli occhi al cielo e sospirava.
Ma come accade solo nelle favole, era successa una magia. Bellissima e inspiegabile. Di fronte alla catastrofe, alla mancanza di fiorini, alla fine imminente, il Malesan e i suoi prodi cavalieri si erano riuniti a corte, e avevano promesso lotta e onore e ardore. A se stessi, al popolo bolognese. Se dovremo sparire, spariremo combattendo, si erano detti, si erano giurati, scambiandosi il sangue sul filo delle loro spade. O nel calice da Barolo del Malesan.
Il popolo allora li aveva seguiti. Come in una processione chiassosa e fiera verso il martirio più nobile si era radunato sotto la neve, sotto la tempesta di emozioni e di ghiaccio, aveva circondato la carrozza dei propri eroi e si era unito al loro giuramento. Fino alla Fine Forza Bologna. Mai era stato più appropriato quel canto d’orgoglioso coraggio.
E da tutto questo i cavalieri avevano tirato fuori il loro smisurato cuore, la loro forza. Da lì, da quei giorni nefasti era nato un battaglione invincibile e irriducibile, che ogni settimana faceva a pezzi l’avversario di turno. E anche quando non lo faceva a pezzi, vendeva carissima la pelle.
Poi era arrivato Natale, e con lui il regalo più bello. La tavola Bologna era stata salvata. Il sardo errante era stato cacciato. Una delle cordate di coraggiosi nobili cittadini si era presa a cuore le sorti dell’antico vessillo rossoblu. L’Allegra Compagnia dei Nanetti: Pavignolo, Scapolo, Cinesolo, Romanolo e tutti gli altri. Giovanni Biancasorte li aveva guidati e tutto era sembrato risolto.
Ma era comparso un nuovo guaio, una nuova minaccia, sulle spalle provate dei cavalieri, del Malesan, del popolo di Bologna. La Matrigna Zanetta aveva consultato il Chicco delle sue Brame, chiedendo chi fosse la più bella del Reame. Biancasorte, aveva detto il Chicco. Che gusti di merda, aveva risposto la Matrigna. Ma poi, accecata dall’invidia e da un certo qual amore per gli sghei, aveva mandato in missione a Chateaufaible il suo fido Orco Baraldo, il cacciatore che doveva portarle il cuore di Bologna. E magari qualche spicciolo a rimborso.
Il popolo si era infuriato. I cavalieri si erano infuriati. Rigo Gulash si era infuriato. Persino Sabrina la Femmina si era infuriata. Bortolo del Tortello aveva minimizzato la cosa. Ma era sembrato evidente a tutti cosa stesse succedendo. Era bastato osservare lo sguardo di Daniele della Porta Novella durante la disfida di Barletta.
Per fortuna parliamo di una favola. E nelle favole anche i nemici più astuti e perfidi lo pigliano in saccoccia.
Infatti, in nemmeno un mese anche la minaccia della Matrigna si era dileguata, Zanetta era stata costretta a tornarsene nel Feudo del Radicchio. D’altronde, l’Orco Baraldo, come sua abitudine, aveva fatto troppi errori. Aveva offerto una mela avvelenata a Biancasorte. Biancasorte aveva risposto “Ah ah, assorrete. Io mancio solo gaviale e cevvo di mundagna”. Allora Baraldo aveva provato a sfidare Biancasorte a sudoku. E coi numeri Biancasorte se l’era cavata ancora meglio. Infine aveva cercato di impressionare Biancasorte millantando amicizie importanti, tipo Moratto Petroliere. “Pure io lo gonosche, Massimo, Ci diamo un coppo di telefono insieme, Baradde?”
Insomma, l’Orco era stato sconfitto in un attimo.
E sul campo, nelle arene di ogni reame, i cavalieri della tavola Bologna avevano continuato a battagliare, vincere, trionfare.
Bastava questo? Sì, forse bastava. Ma le favole sono favole, e si può esagerare.
Come si diceva al principio, quasi tutti i cavalieri della tavola Bologna erano amati dal popolo. Quasi, tutti. Ne mancavano all’appello due. Bellachioma Mutarello, un nobile decaduto e che in tre anni aveva fornito pochi e opachi segni di vita, e Papon de’ Paponi, detto il Brutto Anatroccolo.
Il Brutto Anatroccolo era arrivato qui in estate, in cambio di una cassa di pere kaiser e un biglietto omaggio per il concerto di Apicella. Lo sguardo leggermente pallato, il capello lungo, e un curriculum non proprio esaltante. Un cavalier attaccante che non segnava mai.
E i suoi primi mesi in queste contrade avevano confermato la sua aura di malasorte. Impegnarsi, si impegnava sempre, il Papon. Ma era riuscito a prendere un palo a porta vuota. A farsi male, prendendo un palo a porta vuota. E poi più nulla.
Ebbene, in una notte carica di magia e di gioia, proprio sul finire della pugna coi baldanzosi Mori di Palermo, il Brutto Anatroccolo divenne cigno. Un cigno bellissimo, che vola alto, altissimo. La inzucca, fa gol. E la tavola Bologna vince, proprio all’ultimo respiro. Nemmeno sembrava più lui, il Brutto Anatroccolo. Tutti stentammo a riconoscerlo. Ma ci bastò vederlo intervistato a fine partita. “Ah, sì, cazzo, è proprio lui, veh che faccia…”, dicemmo. Però la magia era compiuta. La prima magia.
E dopo un’infausta serata in cui l’ossequioso Designator Bresco ci aveva mandato un arbitro di pallamano in onor dei gladiatori della Capitale, ecco che arrivava la seconda, di magia, l’occasione, l’esagerazione da favola.
I cavalieri della tavola Bologna erano attesi allo scontro a Torino, dalla Signora che Ruba. Una Signora decadente, il vago aspetto della battona sfiorita. Ma pur sempre pericolosa, specie se ferita. Perché quando la battona è in difficoltà, di solito qualche magnaccia di buoncuore l’aiuta. E’ sempre successo, da trenta e più anni il popolo di Bologna ingoia fiele quando si va contro quelli lì.
E cosa successe?
Successe la magia, appunto. Bellachioma non doveva neppure giocare, ma entrò quasi subito in battaglia. E come illuminato dai raggi di un dio benevolo dispensò colpi magistrali, rifiniture, sciabolate.
Che fecero a pezzi quel che restava della Battona. Una volta, due volte.
Il Santo Del Vaio, il Principe Azzurro di questa favola, non la baciò. La trafisse, anzi. La lasciò a terra sfinita e finita.
E dopo più di trent’anni, il popolo bolognese potè gioire, in quell’Arena del malaffare. Compostamente, educatamente, roteando pugni in aria, intonando canti di gioia, ma più che altro schiaffeggiandosi vibratamente l’incavo del braccio sinistro con la mano destra. O viceversa, per i mancini. Un gesto dell’ombrello sincronizzato di migliaia di fedelissimi della corte di Chateaufaible.
Vivemmo allora felici e contenti?
Bè, sì. Ma…stiamo aspettando il Cagliari. Il luogo dove tutto nacque. La terra natia del Sardo Errante…
E allora, se questa è una favola…
Nessun commento:
Posta un commento